Un regalo della natura.
Su un unico ramoscello, in tre mosse, l’esempio completo di invaiatura.
Nell’olivo l’invaiatura procede con il viraggio dal verde intenso ad una colorazione finale che varia, secondo la cultivar, dal rosso porpora al nero.
Un regalo della natura.
Su un unico ramoscello, in tre mosse, l’esempio completo di invaiatura.
Nell’olivo l’invaiatura procede con il viraggio dal verde intenso ad una colorazione finale che varia, secondo la cultivar, dal rosso porpora al nero.
Secondo me esistono:
l’olio di Oliva quale alimento e…
l’olio di Oliva quale condimento.
è per questo che lo si definisce un “condialimento“.
* Nell’olio di Oliva “alimento” il suo principale ed assoluto valore è la sua massa grassa, eccezionale per il nostro metabolismo e per la salute di cuore e del sistema circolatorio.
* Nell’olio di Oliva “condimento” prevalgono i profumi, gli aromi quindi le sostanze fenoliche, fantastico per insaporire piatti ma anche il semplice: pane e olio.
* L’uno non esclude l’altro.
Giorgio Muffato
L’olio extravergine di oliva è un prodotto con una shelf-life relativamente lunga, cioè di circa 1 anno e mezzo. Tuttavia durante la sua conservazione è soggetto a numerosi cambiamenti nelle sue caratteristiche chimiche e sensoriali.
Alla sua uscita dal separatore finale (o in alcuni casi dal decanter) l’olio extravergine di oliva presenta un tipico aspetto “velato” in quanto contiene al proprio interno acqua e frammenti solidi di oliva. Tali sostanze, nel tempo, sedimenteranno da sole formando un residuo marrone sul fondo del recipiente di stoccaggio.
L’acqua contenuta negli oli mosti è abbastanza variabile, generalmente attorno allo 0,5% in peso. Il Consiglio Oleicolo Internazionale invece, suggerisce nelle sue linee guida un limite al contenuto di acqua dello 0,2%.
La quantità di solidi in sospensione cambia molto con il sistema di estrazione e, in letteratura, si ritrovano quantità comprese fra l’8% e lo 0,01%. Dal punto di vista chimico questi solidi sono composti da proteine, glicosidi, zuccheri legati alle proteine, fosfolipidi, ecc. Tali sostanze sono affini sia all’olio sia all’acqua e si orientano in maniera tale da formare delle sospensioni colloidali (micelle o lamelle) che includono l’acqua al proprio interno e sedimentano in un tempo molto lungo. All’interno di questi colloidi possono avvenire reazioni idrolitiche che daranno luogo inevitabilmente a difetti sensoriali.
La presenza di acqua e nutrienti permettono inoltre l’attività di alcuni microrganismi che si trovavano sulle olive. La presenza congiunta di acqua, nutrienti e microrganismi può portare in poco tempo alla formazione dei difetti sensoriali “morchia” e “rancido”.
Con il processo di filtrazione si rimuovono dall’olio extravergine di oliva sia i solidi, sia l’acqua in eccesso.
L’olio è fatto passare all’interno di un mezzo poroso che trattiene le parti solide e permette alla frazione liquida si passare. Inoltre il mezzo poroso è costituito da sostanze idrofiliche che permettono il trattenimento, quindi l’allontanamento dall’olio della molecola dell’acqua.
Con la filtrazione si ottiene quindi una stabilizzazione dell’olio di oliva.
Si allontanano così i composti e gli enzimi che prendono parte alle reazioni chimiche che originano i difetti, rallentandone conseguentemente la comparsa. Considerato che queste reazioni sono molto rapide, i difetti all’interno di un olio non filtrato possono apparire già dopo poche ore dalla sua produzione. E’ quindi fortemente consigliabile effettuare l’operazione di filtrazione il prima possibile, meglio se addirittura direttamente in frantoio, cioè “in linea” con la produzione dell’olio stesso.
di Alessandro Parenti, Lorenzo Guerrini
di Pietro Scuricini
L’Olio Extravergine d’Oliva (OEVO) è, alla pari del vino, tra le maggiori eccellenze gastronomiche nazionali. Non è un semplice condimento, ma un elemento fondamentale della cucina italiana. Proprio per questo, è importantissimo saper riconoscere un olio sia per non cadere nelle contraffazioni e imitazioni che purtroppo costellano il settore, sia per utilizzarlo nella maniera più idonea per esaltare il gusto dei piatti a cui lo abbiniamo.
La via maestra per avere la garanzia della qualità di un olio è la sua valutazione da parte di esperti del settore (Sommelier e Assaggiatori) che, attraverso una serie di tecniche di riconoscimento analoghe alle modalità di degustazione del vino, ne identificano genuinità, originalità e qualità.
Nell’universo olivicolo più che di tecniche di degustazione, tipiche del mondo del vino, si parla di “tecniche di assaggio” che, per l’olio, sono definite a livello internazionale. Esiste, infatti, un organo, il Consiglio Oleicolo Internazionale (COI)1, che ha codificato le metodologie di assaggio a livello mondiale.
Bisogna anzitutto sfatare alcune credenze che permangono nell’immaginario collettivo: l’assaggio non deve passare attraverso il pane o altro alimento, come invece viene spesso proposto soprattutto in occasione di eventi fieristici, poiché, come è facile comprendere, le caratteristiche intrinseche del cibo in accompagno muterebbero le corrette percezioni del prodotto oleicolo. Come per il vino, anche per l’olio la degustazione deve quindi avvenire in maniera “diretta”. Rispetto al vino, però, l’analisi organolettica dell’olio fa riferimento a due sole fasi: la gustativa e l’olfattiva, poiché il colore e la correlata analisi visiva non sono rilevanti per la qualità.
Il colore dell’olio può variare, a seconda delle tipologie (o cultivar) dal giallo paglia chiaro al dorato, dal giallo verde fino al verde smeraldo, quest’ultima gradazione indubbiamente più invitante all’occhio, ma che nulla aggiunge, invece, alla qualità anche perché la tonalità può essere facilmente modificata con l’aggiunta, per esempio, di clorofilla per far assumere all’olio un’accattivante nuance verde brillante.
Proprio per evitare che il colore possa indebitamente influenzare la valutazione, a differenza del vino che richiede l’assoluta trasparenza dei bicchieri, la degustazione dell’olio avviene utilizzando dei bicchierini colorati blu cobalto o, molto più raramente, marrone ruggine per alterare la percezione visiva rendendola ininfluente ai fini del giudizio finale sulla qualità assoluta dell’olio. Colore, forma e dimensione del bicchierino da degustazione sono definite dal COI.
La particolare conformazione del bicchierino di degustazione è dovuta principalmente alla necessità di racchiudere il bicchierino nel palmo della mano per riscaldare l’olio e portarlo a circa 28°C, temperatura ottimale per la degustazione, in quanto permette l’evaporazione di alcune sostanze volatili (polifenoli) che consentono poi di captare gli aromi identificativi della qualità e/o della tipologia della cultivar. Per fare ciò il bicchierino viene, come detto, posto nel palmo di una mano, coperto con l’altra mano e fatto eventualmente ruotare più volte per elevarne la temperatura fino al raggiungimento di quella voluta.
Una volta effettuata questa operazione preliminare di portata a temperatura dell’olio da valutare, si passa all’analisi organolettica vera e propria.
L’analisi visiva, come detto, non è elemento fondamentale per l’accertamento della bontà e/o della qualità del prodotto. Ha rilevanza unicamente per il riconoscimento delle caratteristiche di lavorazione (filtraggio o meno) e l’individuazione di eventuali difetti dell’olio. Torbidezza, presenza di filamenti o di riflessi aranciati o marroncini sono infatti indicativi di probabili alterazioni o imperfezioni quali Ossidazione, Morchia, Riscaldo, Rancido, ecc..; difetti che dovranno comunque essere confermati dalla successiva analisi olfattiva.
L’analisi olfattiva è, come per il vino, un passaggio di fondamentale importanza. Infatti, come già detto, è tramite l’esame olfattivo che si possono sia individuare eventuali difetti dell’olio sia definirne il profilo organolettico.
Per una procedura ottimale, bisogna però rispettare una serie di passaggi ben precisi: dopo avere scaldato nel palmo della mano il bicchiere portando l’olio alla temperatura voluta, viene effettuata l’olfazione vera e propria che deve essere diretta, profonda e ripetuta tre o quattro volte (senza eccedere per non andare in assuefazione). Tutto questo per poter raccogliere nelle narici tutte le sfumature, i profumi, il retrogusto e le caratteristiche di personalità della cultivar che si esprimono attraverso sentori diversi e ne individuano in maniera precisa la tipologia.
Il quadro aromatico è ben definito e delineato per ogni cultivar, tanto da poter essere rappresentato in Profili Organolettici univoci, redatti mediante elaborazione statistica dei dati delle singole cultivar dall’Agenzia per i Servizi nel Settore Agroalimentare delle Marche (ASSAM) e dall’Istituto di Biometeorologia (Ibimet) del CNR.
L’analisi gustativa completa il quadro dell’analisi organolettica dell’olio. È la fase più affascinante della verifica del valore dell’olio. La bocca, dopo il naso, diventa un vero e proprio laboratorio di analisi, in grado di distinguere i sapori fondamentali, classificarli nelle proprie famiglie di appartenenza (Fruttati, Floreali, Erbacei, Vegetali, Balsamici, Speziati, ecc..) e valutarli singolarmente in base alla loro presenza e intensità, identificandone anche lo specifico aroma (foglia di pomodoro, erba sfalciata, mandorla, mela, banana, pinolo, nocciola, ecc..).
Per fare ciò si deve pure qui seguire un protocollo ben preciso, codificato anch’esso dal COI:
È importantissimo realizzare che l’amaro e il piccante sono due elementi imprescindibili della qualità eccelsa dell’olio extra vergine. Poiché l’eccellenza viene data sia dalla raccolta anticipata delle olive direttamente dall’albero (brucatura) sia dall’immediata frangitura entro le 3-4 ore successive, l’amaritudine dell’oliva viene conservata integralmente nell’olio ed è quindi in effetti indice della sua qualità.
In chiusura dell’analisi gustativa, è possibile avvertire nel finale di bocca una marcata piccantezza, indice, oltre che della grande qualità, anche di un’alta concentrazione di polifenoli antiossidanti. Un vero toccasana per la nostra salute cardiovascolare.
Inoltre, bisogna anche evidenziare che, al contrario del vino, l’acidità di un olio non è identificabile attraverso l’analisi organolettica, ma solo tramite specifici processi chimici di laboratorio.
Il finale sarà quello rivelatore, il momento fondamentale, quello che ci darà non solo l’elemento distintivo del carattere ma anche la valutazione dell’intensità aromatica.
Profumi a parte, è proprio questa intensità che ha una grande rilevanza per potere collocare l’olio nella tipologia di appartenenza più idonea(fruttato leggero, medio o intenso) e, conseguentemente, deciderne il corretto abbinamento col cibo, al piatto che vogliamo accompagnare, arricchire o correggere con la sua presenza.
Per concludere, una serie di raccomandazioni indispensabili pe una corretta degustazione. Come per il vino, bisogna:
International Olive Council (IOC) in inglese: organizzazione internazionale dedicata all’olio d’oliva e olive da tavola. Ha la sua sede a Madrid, dove è stato creato nel 1959 sotto gli auspici delle Nazione Unite
di Pietro Scuricini
Le azioni di questo composto fenolico spaziano dalle attività antiossidanti fino a quelle anti-tumorali. La sua presenza è elevata in foglie, rami e soprattutto nel frutto che, per diventare commestibile, deve essere lavorato.
Il sapore dell’oliva appena raccolta è caratterizzato da un forte gusto amaro che lo rende difficilmente commestibile. Il responsabile di questo sapore amaro poco gradevole è un composto fenolico caratterizzato da un’elevata attività antiossidante il cui nome, oleuropeina, deriva dal nome latino della specie in cui si trova in elevate quantità ovvero l’Olea europaea L. più comunemente nota come olivo.
Alcuni scienziati Italiani che operano in diversi centri di ricerca hanno pubblicato recentemente sulla rivista International Journal of Molecular Sciences (nella forma di consultazione dell’accesso libero) un’interessante recensione sull’oleuropeina. I ricercatori hanno ribadito appunto che questa molecola antiossidante è la più abbondante tra i composti fenolici presenti nel frutto dell’olivo ma anche nelle diverse parti della pianta. A dimostrazione di quest’ultimo aspetto i ricercatori, coordinati dalla dottoressa Barbara Barbaro, hanno rimarcato come numerosi lavori scientifici avessero sottolineato l’elevata presenza di oleuropeina in diverse parti della pianta dell’olivo e dei suoi frutti (tabella 1). In effetti, questa sostanza è presente nelle foglie come nei rami dell’olivo e si accumula in abbondanza nel frutto tanto da renderlo molto amaro: infatti per la produzione dell’oliva da mensa è necessaria la trasformazione e una parziale rimozione di questa molecola.
Trasformazione
e conservazione
Per quanto riguarda il processo di trasformazione dell’oliva per la produzione di olio è importante considerare che l’oleuropeina è idrofila e lo zucchero a cui è legata le conferisce un’elevata “affinità” all’acqua tanto che si ritrova in grande abbondanza nelle acque reflue di vegetazione. Tuttavia, una piccola parte passa all’olio dopo aver subito alcuni processi di idrolisi durante la trasformazione dell’oliva e, in particolare, durante la fase di gramolatura. La gran parte dei composti fenolici che passano all’olio derivano direttamente da trasformazioni dell’oleuropeina e le molecole più affini sono raggruppate nella classe dei secoiridoidi.
Durante la conservazione dell’olio gli antiossindanti fenolici (secoiridoidi e derivati) subiscono un’ulteriore riduzione in quanto si “sacrificano” per prolungare la vita dell’olio. Un indicatore del contenuto in antiossidanti è proprio il gusto amaro, infatti è noto che durante la conservazione l’amaro tende a diminuire progressivamente. Tuttavia, è importante ricordare che non tutte le molecole fenoliche sono amare e che comunque non tutte hanno lo stesso “potere amaricante”, pertanto un olio poco amaro potrebbe avere comunque una buona dotazione fenolica.
È interessante soffermarsi sulla tabella 1 per osservare i valori assoluti del contenuto in oleuropeina per i quali sono evidenti dei range molto ampi per via della numerose variabili (areale, varietà dell’olivo, età della pianta, parte della pianta, stagione, ecc.) che influenzano la diversa presenza della molecola; inoltre è importante rimarcare il diverso ordine di grandezza tra le varie componenti e l’olio extravergine di oliva. Infatti per quest’ultimo si fa riferimento ai derivati secoiridoidi e il contenuto è riferito al chilogrammo e non al grammo di matrice.
Potenzialità
da sfruttare
La recensione della dottoressa Barbaro e dei suoi coautori continua con una ampia disamina degli effetti salutistici dell’oleuropeina di cui si ritrova un sommario nella tabella 2. La lettura di questa tabella è sicuramente di grande interesse in quanto le azioni esplicate dell’oleuropeina sono molto numerose e vanno dalle più comuni attività antiossidanti fino a quelle anti-tumorali.
Alla luce di tali informazioni è sicuramente molto importante tornare ancora una volta sulle peculiari caratteristiche dei prodotti derivanti dalla coltura dell’olivo ma anche dei suoi sottoprodotti. Infatti, le foglie dell’olivo sono note per l’elevato contenuto in oleuropeina ma il loro utilizzo in ambito alimentare, farmaceutico o cosmetico è al momento ancora molto limitato.
L’olio di Oliva è composto da due parti:
la sua massa grassa liquida;
la parte vegetale acquosa biologicamente attiva.
La massa grassa è neutra, infatti è inodore ed insapore anche se di alto valore oleico.
Abbiamo già detto molte altre volte che questa meravigliosa massa grassa è composta per 85% da grassi monoinsaturi che sono un miracolo della natura per il benessere e la piena salute del nostro cuore e di tutto il sistema cardio-vascolare, per il nostro fegato che lo aiuta a rigenerarsi e per il nostro metabolismo in quanto aiuta a contenere il picco glicemico.
La parte vegetale acquosa biologicamente attiva è in effetti una minimissima parte dell’olio di Oliva ed è proprio quella che è la responsabile di tutto quel mondo di odori, profumi, sentori che possono diventare difetti: di rancido, muffa, avvinato ed altri, se il prodotto non viene prodotto e conservato in maniera ottimale.
L’acqua, fonte unica di vita e insostituibile per noi, ha il difetto di deteriorarsi in quanto contiene infinite sostanze che per colpa della luce, dell’aria, dell’inquinamento chimico e da radio frequenze si ossidano creando nuove sostanze dannose se non letali per noi.
E’ sempre l’acqua, l’umidità che può causare i guai maggiori per la nostra salute.
Paradossalmente noi siamo fatti per 80% di acqua, viviamo solo grazie all’acqua, ma proprio da questa possiamo avere tantissimi problemi.
Faccio un esempio con il burro, un grasso di origine animale di grande valore, però solido e quindi, seppur molto saporito, meno utile per il nostro benessere.
Ne esistono di due tipi:
il burro normale, morbido e spatolabile;
e il burro anidro, (Significato del termine anidro: Il termine anidro viene utilizzato per indicare una sostanza priva di acqua. Una sostanza per essere anidra deve avere subito o un processo di essiccamento o, nel caso di un sale, la perdita dell’acqua di cristallizzazione) senza acqua che però non è ne morbido e ne spatolabile in quanto si presenta duro e “secco”.
Si toglie l’acqua per farlo durare di più nel tempo e senza bisogno di mantenerlo in regime di temperatura controllata, al freddo entro 4° centigradi. Questo perchè essendo l’acqua la resposabile del deterioramento del burro, togliendola si evita il decadimento del prodotto.
Nell’Olio di Oliva questo non si può fare, se non togliendo tutto il suo sapore che è quello che si fa nell’ottenere l’olio di sansa.
In Abruzzo ci sono 25 cultivar di olivo, una varietà tale che, insieme ai cambiamenti del clima, porta ad avere differenti tipi di olio extravergine: dal profumo leggero e delicato (zone collinari) agli oli dal gusto intenso fruttato leggermente piccante e amaro (zone interne). Ecco le principali tipi di cultivar in Abruzzo:
La Basilicata possiede ben 29 cultivar di olivo. Tra quelle principali ricordiamo:
La Calabria può contare su un vasto patrimonio olivicolo di 34 cultivar di olivo differenti. Ecco le principali:
La Campania è una delle regioni con il maggior numero di cultivar, ben 104, che arricchiscono la sua prestigiosa tradizione gastronomica. Tra le principali:
Il Friuli Venezia Giulia è la regione italiana con meno varietà di cultivar di olivo, infatti ne possiede solo 5:
L’Emilia Romagna vanta un patrimonio olivicolo importante con la presenza di 19 differenti cultivar, tra le quali:
Nel Lazio si possono contare ben 42 tipi di cultivar di olivo. Le più importanti e rinomate sono:
La Liguria è una regione dove l’olivicoltura è diffusa con 25 varietà di cultivar. Tra quelle più famose ci sono:
In Lombardia ci sono 25 cultivar di olivo. Ecco le principali varietà:
Nelle Marche esistono 29 differenti cultivar dovute a mutazioni del genotipo dell’olivo e a influenze ambientali. Tra le più importanti:
In Molise sono state individuate 40 cultivar di olivo autoctone. Tra le più diffuse ricordiamo:
La Puglia è una regione ricca di cultivar di olivo differenti: ben 53, tra cui ci sono:
La Sardegna possiede 32 cultivar di olivo riconosciute. Le principali sono:
L’olivicoltura siciliana vanta ben 60 varietà di cultivar. Ecco le più conosciute:
La Toscana è la regione italiana con il maggior numero di cultivar riconosciute, se ne possono contare ben 110, tra le quali:
In Trentino ci sono 9 varietà di cultivar di olivo. Ecco le principali:
L’Umbria possiede 35 varietà di cultivar d’olivo. Tra le principali ricordiamo:
In Veneto ci sono 26 tipi di cultivar d’olivo differenti. Ecco le principali:
La sansa, in generale, è un sottoprodotto della procedura di lavorazione di olive, uva o altra frutta. Dalla sansa, grazie a processi specifici, si possono ottenere altri prodotti, anche molto diversi fra loro: come fertilizzanti, combustibili o alimenti.L’olio di sansa deriva dalla lavorazione delle olive, utilizzando gli scarci dell’extravergine e del vergine, ma ha molte qualità e può essere utilizzato in cucina, soprattutto per friggereLa grappa, ad esempio, è prodotta grazie alla seconda lavorazione delle vinacce, sansa di uva, mentre l’olio deriva dalla sansa di olive. La sansa di olive è una sorta di pasta, formata da residui di buccia, parte di polpa e frammenti di nocciolo delle olive, ed è, assieme all’acqua di vegetazione, il risultato della spremitura o della frantumazione delle olive da cui si è già ricavato l’olio extravergine e vergine d’oliva. Al suo interno la sansa di olive trattiene una percentuale non trascurabile di olio – circa il 3-6% del suo peso – che può essere estratto per pressatura o centrifugazione, grazie all’ausilio di solventi chimici: a questo stadio si tratta ancora di un olio grezzo e non commestibile. L’olio grezzo viene poi raffinato e, in un ultimo passaggio, miscelato con una percentuale non definita di olio vergine. A questo punto può essere consumato e quindi immesso sul mercato per essere venduto.
In Italia la vendita dell’olio di sansa, in un primo tempo proibita, è permessa dalla metà degli anni Venti. Nella classificazione merceologica degli oli d’oliva commestibili, costruita seguendo il parametro della acidità libera, cioè della percentuale di acidi grassi che non si lega, a livello molecolare, alla glicerina, l’olio di sansa è situato al quarto e ultimo posto, dopo l’olio extravergine, l’olio vergine e l’olio di oliva. Questa posizione in classifica, sebbene l’olio di sansa abbia una percentuale di acidità libera inferiore all’1,5%, è dovuta al fatto che, come abbiamo visto, all’interno del processo di estrazione e lavorazione, l’olio sia sottoposto a trattamenti chimici. Il sospetto che ciclicamente pesa sull’olio di sansa, allora, è quello che al suo interno possano permanere tracce, più o meno marcate, di sostanze chimiche dannose per la salute del consumatore. D’altro canto in suo favore, l’olio di sansa mantiene inalterata la composizione in acidi grassi rispetto all’olio di oliva. Michele Martucci, presidente di Assitol una delle principali associazioni che raccoglie i produttori oleari, assicura che l’olio di sansa non solo non fa male alla salute, ma che non è da considerarsi come il frutto di un materiale di scarto, bensì come “fratello minore dell’olio d’oliva, dotato di analoghe qualità alimentari” indicato per la preparazione di tutti quei piatti che hanno bisogno di un olio delicato, non troppo caratterizzato o per la frittura.
1°: OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA:
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2°: OLIO VERGINE DI OLIVA:
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3°: OLIO DI OLIVA – COMPOSTO DI OLI DI OLIVA RAFFINATI E OLI DI OLIVA VERGINI:
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4°: OLIO DI SANSA DI OLIVA:
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Ha collaborato Roberto Passerini
Giorgio Muffato
Presidente Ulivita
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I PRIMI STUDI NELLA STEPPA
Secondo le definizioni attuali, con il termine “suolo” s’indica ogni materiale capace di ospitare piante, fino a comprendere le rocce incoerenti (in pratica non in blocco compatto), purché esplorabili dalle radici.
Per convenzione, comunque il suo spessore è definito fino ad una profondità massima di due metri.Esistono infinite varietà di suolo: da quelli alpini coperti di conifere a quelli coltivati delle pianure, fino a quelli aridi e quasi privi di vegetazione delle zone desertiche.
Proprio per questa estrema differenziazione, fino a poco tempo fa ciascuno tendeva a specializzarsi nella conoscenza di un tipo specifico di terreno. Solo alla fine dell’800, infatti, è nata la pedologia (dal greco “pedon“, suolo), la scienza che studia e cataloga i terreni fertili.
Erano i tempi dell’Impero Russo, quando la produzione di cereali quasi miracolosa della steppa, grazie alla famosa terra nera che ricopre buona parte della superficie dell’ex Unione Sovietica, cominciò a ristagnare.
Nel contempo, i cereali coltivati dagli Stati Uniti superarono per quantità quelli dell’Impero Russo, strappando alla steppa lo scettro di granaio dei mondo; per questo motivo, e nel contempo per risolvere il problema della compravendita dei terreni (i venditori, per strappare un prezzo migliore, asserivano in ogni caso che si trattasse di terra nera), la Libera Società di Economia di San Pietroburgo istituì una commissione di esperii che incaricò Vassily Vassilievich Dokuchaev di effettuare ricerche scientifiche sui terreni. I successivi due anni di viaggi nella steppa, i prelievi di campioni di terreno e la relazione redatta da Dokuchaev nel 1883 sono le pietre miliari della scienza del suolo.
FATTA DI HUMUS E DI CRISTALLI
Che cosa c’è, allora, nella terra? La prima distinzione si fa tra suoli organici e suoli minerali.
I primi sono composti prevalentemente da sostanze d’origine vegetale e animale (foglie e altri residui di escrementi, in vari gradi di decomposizione), come nel caso delle torbiere. I secondi, che sono la maggioranza, derivano invece dalle rocce e contengono al massimo il 10 % di sostanze organiche.
In generale, le componenti di un suolo sono quattro: quella solida, divisa inminerale e organica, quella liquida e quella gassosa.
La principale componente minerale di un determinato terreno si chiama roccia madre, nel senso che deriva dallo sgretolamento di una roccia.
Ma non sempre i figli assomigliano alla madre: se i cristalli di silicio della sabbia sono praticamente inalterati rispetto alla roccia da cui derivano, le argille sono invece così alterate da essere definite “minerali di neoformazione”.
Responsabili di queste trasformazioni sono vari tipi di reazioni chimiche, favorite dalle condizioni climatiche e dall’acqua. Più un terreno è lontano dalla sua natura originaria, più si definisce “evoluto”.
Lo stesso vale per le sostanze organiche, con la differenza che quando la degradazione, dovuta soprattutto ai batteri, è tale da rendere irriconoscibili le materie di partenza, non si parla più di neoformazione ma di humus: quella sostanza di colore scuro, ricca di microrganismi e dall’odore caratteristico, che è alla base della fertilità del suolo.
La sabbia del deserto, i detriti di frane recenti, le sabbie marine o i materiali di alcune alluvioni fluviali possono essere totalmente privi di humus.
Ciò li rende così privi di fertilità e coesione (i granuli sono slegati l’uno dall’altro) che a rigore non possono nemmeno essere considerati suolo.
Dire in che percentuale le varie componenti siano distribuite nel terreno è praticamente impossibile, perché basta spostarsi di poche decine di metri per trovare terreni di composizione molto diversa.
E uno dei motivi per cui due vigneti apparentemente uguali dànno, alla fine, vini profondamente diversi.
Tuttavia una cosa si può dire: una terra “media”, per esempio un suolo forestale, contiene un 45% in volume di componente minerale, un 5% di componente organica, più acqua e aria, ciascuna in misura variabile dal 20 al 30%.
COME VENGONO ANALIZZATI
Lo studio dei terreni avviene per lo più in due modi. Si può scavare un suolo in modo da metteme a nudo una sezione verticale ed evidenziarne il “profilo“, che può essere sottile pochi centimetri o profondo anche alcuni metri.
Oppure adottare il metodo delle “carote“: con una speciale trivella si preleva un cilindro di terreno in modo da poterne vedere i vari strati.
Una prima classificazione (dopo la suddivisione in suoli “organici” e “minerali” viene fatta in base alla granulometria, cioè alla presenza in esso di particelle più o meno fini.
L’esame si fa così: prima di tutto si elimina la sostanza organica usando acqua ossigenata, poi si toglie l’acqua, seccando il terriccio in forno, infine si tolgono le particelle più grosse usando setacci di varia misura.
Via via che si scende in dimensione si trovano la sabbia, ancora visibile a occhio nudo, il limo e infine l’argilla: così fine che per vederne i singoli “grani” occorre il microscopio elettronico.
Ma al di sotto del valore di 0,05 millimetri i setacci non bastano più. Per l’analisi granulometrica, limo e argilla vengono quindi sciolti in acqua e lasciati depositare: le particelle più grosse si depositano prima, le argille più fini per ultime.
SUOLO DA RISAIE, SUOLO DA VIGNE
I terreni con elevata quantità di ghiaia e ciottoli sono molto permeabili all’acqua e quindi richiedono frequenti irrigazioni oppure colture che hanno bisogno di poca acqua (questo è il motivo per cui i terreni sabbiosi sono poco fertili).
I suoli con troppa argilla, viceversa, favoriscono il ristagno idrico (si dice che sono asfittici: sono i suoli ideali per le risaie) e sono difficili da lavorare perché ostacolano la penetrazione dell’aratro, anche se possono essere fertili.
L’ideale è una via di mezzo: il terreno che gli agricoltori chiamano “di medio impasto’, e i pedologi definiscono “franco“.
Oltre che essere sottoposto a queste analisi, tipiche della pedologia, il suolo viene esaminato anche dal punto di vista chimico.
E’ il chimico a valutare, per esempio, il pH del terreno, cioè il suo grado di acidità, nonché la presenza di elementi importanti per la fertilità: azoto, fosforo e potassio (detti macroelementi, perché sono quelli principali per la nutrizione delle piante), ma anche ferro, alluminio, rame e altri, a loro volta utili ai vegetali.
dal web – http://web.infinito.it/utenti/s/sercas/cdl/suolo.htm
Verdi, nere, dalla forma allungata o tondeggiante, le olive sono sempre uno stuzzichino perfetto in ogni stagione, oltre a un ingrediente saporito per dare un tocco unico a piatti di pasta, di pesce, a insalate o alla pizza. ESISTONO TANTISSIME VARIETÀ IN ITALIA E NEL MONDO, OGNUNA CON CARATTERISTICHE DISTINTIVE Inoltre, proprio l’oliva è il simbolo di uno dei cocktail più famosi al mondo, amatissimo persino dallo 007 James Bond, ilMartini. Facile però dire oliva: sapete che ne esistono tantissime varietà in Italia e nel mondo, ognuna con proprie caratteristiche distintive sia nell’aspetto che nel sapore? Basta pensare alle differenze tra le taggiasche liguri e le olive kalamata greche. Nel nostro Paese poi ogni regione ha le sue specialità, in certi casi tutelate persino da Denominazioni d’Origine Protetta come è per l’oliva di Gaeta, riconosciuta dal ministero delle politiche agricole proprio nel 2015. Andiamo allora alla scoperta delle principali varietà di olive, assaporiamone profumi e sapori, vediamo come utilizzarle al meglio in cucina.
Ascolana tenera: è un’oliva di Denominazione di Origine Protetta, conosciuta anche all’estero, che si coltiva nella zona di Ascoli Piceno, nelle Marche. Ha forma ellissoidale ed è molto polposa. Si raccoglie quando è ancora verde-giallognola e tradizionalmente si prepara ripiena di carne e poi fritta: si tratta delle tipiche olive all’ascolana, un esempio di street food a cui è difficile resistere. Queste olive sono ottime anche da conservare in salamoia. Pensate che persino gli antichi Romani amavano questa varietà che chiamavano la picena.
Bella di Cerignola: è una varietà diffusa in Puglia che sembra avere origini molto antiche. Secondo alcuni deriva dalla tipologia Orchite dell’antica Roma, secondo altri è stata portata dalla Spagna nel XV secolo e per questo in passato era soprannominata oliva di Spagna. C’è però chi attribuisce questo nome al fatto che i frutti fossero lavorati con un metodo di origine spagnola. Al di là di queste discussioni sull’origine, dobbiamo sottolineare che è uno dei prodotti simbolo del Made in Italy, apprezzato all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Dal 2000 la cultivar è stata inserita nei registri europei con la denominazione Bella della Daunia Dop. Potrete trovare le olive di questa varietà sia verdi, dalla polpa croccante, che nere. In entrambi i casi il sapore è delicato, la consistenza compatta e la forma allungata, di grandi dimensioni. Potete consumarle da sole oppure utilizzarle per insaporire una focaccia, primi piatti di pasta oppure pesce azzurro o carne bianca. Il suo sapore è infatti delicato e può dare sfumature interessanti senza coprire e annullare gli altri ingredienti.
Carolea: la coltivazione di questi prodotti in Calabria è antichissima, persino antecedente all’arrivo dei greci nel VIII secolo a.C. Le olive carolea hanno forma ovoidale, polpa carnosa e sono coltivate in tutta la Calabria (dette quindi anche calabresi), ma con un’estensione importante soprattutto nella provincia di Catanzaro. Questa varietà è adatta per arrivare sulle nostre tavole sia con olive verdi che nere, ma è anche in grado di essere una buona base per l’olio extravergine. Di solito le olive carolea sono conservate in salamoia oppure essiccate al forno e assaporate al naturale, ma possono essere utilizzate anche come ingrediente di ricette a base di verdure o pesce.
Cassanese: insieme alla carolea è la cultivar più importante della Calabria. Si coltiva soprattutto nella zona di Cassano allo Jonio e della piana di Sibari in provincia di Cosenza. Una volta raggiunta la maturazione, ovvero quando assume un colore nero brillante, è raccolta; solitamente è lasciata essiccare al sole per conservare il suo tipico sapore amarognolo oppure messa sotto sale per poi essere conservata con olio extravergine aromatizzato con peperoncino, scorza di limone o arancia oppure foglie di menta. Il nostro consiglio è di provarle così, magari durante un antipasto, accompagnate da salumi e formaggi calabresi.
Chalkidiki: dalla Calabria passiamo alla Grecia e più precisamente nella regione centrale della Macedonia, terra delle olive chalkidiki, dalla forma grande e allungata, che si presenta di solito sulle nostre tavole con la colorazione verde brillante. Il sapore è piacevolmente salato con un retrogusto leggermente piccante, cosa che lo rende particolarmente indicato all’abbinamento con la feta greca.
Gordal Sevillana: anche la Spagna è terra di ottime olive sia per l’olio extravergine che da consumare a tavola. La Gordal Sevillana è una cultivar tipica, apprezzata per i suoi frutti grandi e ciccioni (gordal significa grasso). Sono tipiche della zona di Siviglia, in Andalusia, ma la coltivazione è diffusa anche in altre provincie come quella di Cordoba. Il sapore delle olive è delicato, leggermente salato e dolce. Solitamente si presentano verdi e sono utilizzate spesso in piatti di mare, ma anche come tocco finale per il già citato Martini.
Cucco: si coltiva in Abruzzo, tra Francavilla a Mare e Chieti, e la sua particolarità è la forma molto tonda che la fa assomigliare a una ciliegia, da qui il nome oliva da cuccare ocucco. Questa cultivar è adatta sia per la produzione di olio extravergine, che in Abruzzo è un’antica tradizione, sia di olive da tavola sia nere ma soprattutto verdi. Il sapore è delicato, con un retrogusto amarognolo che in caso di frutti ben maturi si addolcisce grazie alla salamoia. Assaggiatele come antipasto sulle bruschette o nei primi di pasta.
Giarraffa: le prime piante furono portate in Sicilia dai greci e si diffusero sull’isola nei secoli successivi durante le dominazioni mussulmane. Possono essere commercializzate sia verdi che nere. Le prime hanno una polpa croccante e un sapore fresco, mentre le nere sono più dolci. Entrambe le tipologie si presentano delicatamente salate e con un retrogusto che tende all’amaro. La forma è particolare perché può ricordare un grande cuore allungato. Diversamente da altre varietà, la Giarraffa si raccoglie tra settembre e ottobre ma anche da novembre a gennaio.
Hojiblanca: altra nota cultivar spagnola, coltivata in Andalusia tra le aree di Siviglia, Cordoba e Malaga e chiamata anche Priego de Córdoba. I frutti sono utilizzati molto spesso come base per produrre olio d’oliva ma anche come olive nere da tavola. Il sapore è delicato e piacevolmente amaro. Provatele con ricette a base di carne bianca.
Itrana: dietro questa oliva c’è una leggenda che ci riporta a Enea. Si dice infatti che furono i suoi marinari a trovare questi frutti galleggiare in mare e a innamorarsene non appena assaggiati. Di sicuro questa cultivar è stata fin dall’antichità coltivata nella provincia di Latina e in particolare nella cittadina di Itri da cui prende il nome. Queste olive possono essere utilizzate come base per l’olio delle Colline Pontine Dop oppure al naturale. In base al grado di maturazione possono presentarsi con un nome diverso. Probabilmente avrete sentito parlare delle olive di Gaeta, che non sono altro che i frutti ben maturi della varietà Itrana, chiamati così perché erano esportati partendo dal porto di Gaeta. Sono eccezionali sulla pizza, in ricette a base di pesce o nelle insalate. La loro polpa soda e saporita vi conquisterà come ha già fatto con i marinai di Enea nella notte dei tempi. Una particolarità: l’itrana verde, raccolta a inizio novembre, può essere conservata in un modo tradizionale particolare: è infatti schiacciata (senza rovinare il nocciolo) e lasciata per un paio di settimane in acqua e sale. Una volta lavata è conservata con olio d’oliva, peperoncino, aglio e prezzemolo e proposta come antipasto.
Kalamata: proveniente dall’omonima regione greca, è una delle varietà più famose del Paese ellenico. Diversamente da altre cultivar, la kalamata non è utilizzata per l’olio ma solo ed esclusivamente per ottime olive da tavola. Altra particolarità: si presentano di un colore a metà tra il verde e il marrone, sono molto facili da riconoscere. Di solito si trovano in salamoia, sottaceto o sottolio. Il loro sapore dolce e rotondo le rende particolarmente adatte ad accompagnare formaggi e piatti a base di verdure come la famosa insalata greca.
Nocellara del Belice: in Sicilia, nella valle del fiume Belice, tra le province di Palermo, Agrigento e Trapani, si coltiva questa oliva, molto apprezzata per la sua qualità e il suo sapore fruttato. La varietà, riconosciuta dalla denominazione Dop, è caratterizzata da una forma tondeggiante, pezzatura grossa ed è utilizzata sia per la produzione di olive verdi, sia per quella di olio extravergine Valle del Belice Dop. Ha un periodo di raccolta molto breve che va da fine settembre a inizio ottobre ma poi si può conservare in una salamoia da utilizzare tutto l’anno per crostini, zuppe oppure piatti di pasta fresca o secca.
Sant’Agostino: altra varietà tipica pugliese e più precisamente della provincia di Bari. La sua forma è tondeggiante, di dimensione media e sulle nostre tavole è proposta di colore verde (per l’olio non è adatta). Di solito l’oliva è raccolta a settembre e poi cotta in acqua e cenere per alcuni giorni. In Puglia, per tradizione, si conserva in una salamoia di acqua, finocchietto selvatico e sale. Vi consigliamo di mangiarla semplicemente così come aperitivo.
Santa Caterina: questa cultivar nasce invece in Toscana, in provincia di Lucca (è anche detta oliva lucchese), anche se oggi è coltivata in varie parti del mondo, dall’Argentina al Libano, passando per la Slovenia. Ha forma ellissoidale ed è particolarmente apprezzata come oliva verde da tavola perché molto carnosa. Provatele al naturale, in salamoia oppure con il coniglio (una ricetta tipica proprio del lucchese).
Taggiasca: deve il suo nome al convento benedettino di Taggia, in Liguria, da dove tutto è partito e ha una storia e una tradizione di più di 1000 anni. Oggi in realtà la sua coltivazione si estende lungo tutta la regione fino a raggiungere Monaco, seppure la denominazione Dop si riferisce solo alla riviera ligure. Probabilmente è una delle varietà più conosciute e amate, sia come base di un ottimo olio extravergine che al naturale. L’oliva taggiasca è molto piccola ma carnosa, facile da distinguere anche per il suo sapore fruttato, aromatico ed equilibrato. Solitamente sono selezionati frutti con gradi di maturazione diversa, poi lavorati in salamoia. Provateli in ricette tipiche liguri come ilconiglio o lo stoccafisso, ma anche per insaporirepiatti di pasta o contorni di verdura.